La prima intervista della nostra ricerca su relazioni tra donne, leadership e autorità è a Elena Carnevali, Deputata della Repubblica, cresciuta a Ciserano in provincia di Bergamo, oggi capogruppo della commissione affari sociali del Partito Democratico.
Si laurea in Fisioterapia a Verona e lavora per anni come terapista della riabilitazione in case di riposo a Calusco D’Adda, poi in via Gleno a Bergamo ed infine presso l’Azienda Ospedaliera di Bergamo. Gli anni della formazione sono stati anche quelli dell’impegno nel volontariato con l’Associazione Disabili Bergamaschi. Nel 1999 inizia ’impegno politico, quando viene eletta nel consiglio comunale. Nel 2004 è nominata assessora alle politiche sociali, migrazione e cooperazione internazionale. Nel 2009 è nuovamente eletta diventando capogruppo del Partito Democratico. È nel direttivo di ANCI Lombardia, vicepresidente del dipartimento Istruzione fino alla metà del 2012 e oggi impegnata nel dipartimento Welfare. Alle elezioni politiche del 2013 viene eletta deputata della XVII legislatura della Repubblica Italiana nella circoscrizione IV Lombardia per il Partito Democratico. Sua la legge sul “Dopo di noi” (Legge 112/2016). Viene rieletta alle successive elezioni politiche del 4 marzo 2018 nel collegio plurinominale Lombardia 3.
– Quale, attualmente, lo stato di salute delle donne nelle istituzioni politiche? Ritiene siano protagoniste indipendenti o “gregarie”? Partendo dalla propria esperienza personale vuole raccontaci qualcosa in merito?
Non sono né protagoniste né indipendenti né gregarie. Nel senso che le due definizioni forse si attagliano a singole storie ma non danno il quadro di un cambiamento che, pure faticosamente, si sta realizzando e che ha alle spalle storie collettive di donne dentro e fuori i partiti e le istituzioni. E dei conflitti avvenuti per affermare la necessità del loro contributo nelle istituzioni, nella politica, nella società, nell’economia.
La strada è comunque ancora in salita. Basti pensare alle leggi elettorali e a come sia faticosa la conquista della doppia preferenza. O all’assenza di donne nelle task force indicate dalle istituzioni per far fronte alla pandemia o alla mancata garanzia di parità di rappresentanza in alcune giunte regionali o di altre istituzioni.
Il ruolo da capogruppo nella Commissione Affari sociali che oggi ricopro è frutto di impegno, conquista e riconoscimento: nulla avviene per caso. Non sono poche le donne che rivestono il ruolo di Presidente di Commissione o di Capogruppo alla Camera dei Deputati per il PD. Ma è importante anche sottolineare la forte reazione che ne è derivata, per dare il senso sia della fatica del cambiamento sia del cammino ancora da percorrere. Una strada di cambiamento promossa dalle donne.
Nei giorni scorsi un segno importante in questa direzione è stato dato dall’elezione come prima rettrice della Sapienza di Antonella Polimeni o della prima donna presidente del consiglio regionale della Regione Puglia, Loredana Capone.
Le occasioni da gregaria per me sono state sicuramente maggiori perché abbiamo scelto un metodo unite e trasversali per avere più forza: penso alle battaglie di discriminazione, compresa quella a sostegno delle donne con disabilità affrontata con le associazioni di donne all’interno della Federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fish), alle battaglie per l’aumento dei congedi di maternità e paternità, al pacchetto di norme per la realizzazione di servizi flessibili per la condivisione dei carichi di cura e di lavoro, all’inserimento nell’ultima legge di bilancio di misure per il sostegno dell’impresa femminile che arriva alla Camera in questi giorni, fino all’introduzione dell’assegno universale, norma che non può e non deve disincentivare il lavoro femminile. Oppure penso alla lotta molto aspra e convinta contro il DL Pillon.
– Per il superamento dei modelli patriarcali: ritiene siano sufficienti delle riforme o si deve puntare alla rivoluzione? Quando e come lei si è sentita rivoluzionaria?
Gli stereotipi culturali sui ruoli di genere alimentano modelli patriarcali tutt’altro che archiviati. Come ha dimostrato dal punto di vista legislativo il disegno di legge Pillon, ma anche il susseguirsi della violenza maschile contro le donne. Per aggredire la cultura patriarcale è molto importante: In primo luogo costruire l’educazione al rispetto e abbattere gli stereotipi di genere. La scuola e i luoghi della formazione sono i più importanti nei quali perseguire entrambi gli obiettivi. Ma non meno importante è continuare a pretendere che modelli e linguaggi che giustificano il patriarcato vengano aboliti. Lo vediamo ancora quotidianamente. Lo abbiamo visto anche nelle trasmissioni televisive sulla rete pubblica. O su alcuni quotidiani. Scalfire linguaggi o modelli sembra ancora così difficile. In secondo luogo realizzare politiche pubbliche e quindi anche riforme che contrastino gli stereotipi sulla divisione dei ruoli. Vi rimando all’interessante audizione della sottosegretaria Cecilia Guerra sul bilancio di genere del 20 ottobre 2020 alla Camera dei deputati. In terzo luogo servono atti simbolici, che diventano nei fatti rivoluzionari.
Da parte degli uomini: quando si rifiutano di partecipare a enti pubblici rappresentati da soli uomini per esempio.Da parte delle donne: quando si propongono senza essere “autorizzate” ad incarichi di leadership.
Ma anche in questo caso è determinante la costruzione collettiva delle donne. Nell’ispirare le riforme e i gesti “non autorizzati”. Nel guidare le une e gli altri. L’esempio di “Non una di meno” rappresenta una capacità di realizzare movimenti che hanno prodotto aggregazioni di moltissime donne (e vorremmo anche di molti uomini) per un’uguaglianza sostanziale e di contrapposizione ad epoche che vorremmo archiviate. Perché il cambiamento necessita di azioni e gesti collettivi.
– Ritiene possibile raggiungere il posto di comando/potere con un pensiero ed un comportamento che siano contro i paradigmi e le logiche maschili? (risultato economico, tecnocrazia, affermazione tramite la forza…)
Sì, è possibile ma non è ancora la realtà. È una conquista che cambierebbe in meglio per tutti i modelli di leadership. Più le donne si affermano e più diventa realistica. Per altro proprio la pandemia ha dimostrato che nel lockdown il Paese è stato sostenuto dalle donne. Ma non si può realizzare senza il sostegno di politiche coerenti, legislazione coerente, azione collettiva delle donne. Ci sono studi che hanno analizzato l’impatto della presenza delle donne nei consigli di amministrazione per concludere che le performance di quelle aziende sono migliorate a dimostrazione che esiste una peculiarità della leadership femminile, del prendersi cura. Un aumento della presenza però realizzato solo in virtù della legge Mosca-Golfo. L’ineguaglianza rappresenta anche un peso per un’economia che ambisce ad essere intelligente, sostenibile e solidale e che intende conseguire elevati livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. Il potenziale e i talenti delle donne devono essere utilizzati più largamente e più efficacemente.
– Come ritiene la sua “relazione politica” con le donne? Si sente maestra? é inclusiva, attenta alle istanze…? può nominare due donne, una più giovane e una più anziana, che sono state per lei maestre nella tua crescita professionale?
Non nascondo che all’inizio della mia esperienza amministrativa e politica – negli anni Novanta – guardavo con diffidenza alle “quote di genere”, affascinata dall’idea che il merito fosse un criterio sufficiente per ricoprire determinati ruoli. Diventai segretaria cittadina dei Democratici di Sinistra come prima donna a ricoprire quella carica. Un cambiamento che non abbiamo valorizzato come fatto in sé, indipendentemente dalla mia persona. Venivo dal mondo del volontariato più aperto al riconoscimento dei ruoli apicali destinati alle donne. Poi successivamente una donna, Mirosa Servidati, fu segretaria provinciale del Partito Democratico. Essere “maestra” penso sia un titolo riduttivo anche se nella società di oggi servono anche leadership autorevoli. Essere “gregaria” e inclusiva nelle faticose conquiste ancora da raggiungere credo moltiplichi l’energia per quel cambiamento culturale di cui abbiamo bisogno.
Sono molte le donne a cui ispirarsi, difficile nominarne solo due. Penso a Ebru Timtik, coraggiosa avvocata che ha resistito 238 giorni in sciopero della fame per poter avere un processo equo combattendo per i diritti umani. A Ruth Bader Ginsburg, morta da poco a 87 anni, per 27 giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, seconda donna della storia a ricoprire quel ruolo, la prima di religione ebraica, ispiratrice di tante battaglie per i diritti delle donne. O a Lidia Menapace, staffetta partigiana e senatrice della Repubblica, pacifista, femminista e militante. Fino a Nilde Iotti, simbolo di una generazione di donne in lotta per l’emancipazione femminile in politica, allora dominata esclusivamente da uomini.
Per quanto riguarda invece donne più giovani è impossibile non pensare in questo momento a Greta Thunberg, che a soli sedici anni è diventata ispiratrice di un movimento globale, portando all’attenzione dei potenti del mondo il grave problema del cambiamento climatico. La sua forza comunicativa è di grande ispirazione.
Ma penso anche a due giovani donne impegnate direttamente in partiti politici. La prima è Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane donna della storia ad esser eletta al Congresso. È all’inizio della sua carriera ma ha già saputo infondere nuova linfa al Partito Democratico Statunitense, riportando all’attenzione della sinistra americana i temi del lavoro, del salario minimo e della sanità pubblica. Figlia di due portoricani, nata e cresciuta nel Bronx, ha saputo combattere per la sua comunità e rappresentarne le istanze. La seconda è invece una donna di governo, che è diventata simbolo della socialdemocrazia nel mondo ed è stata da poco rieletta Presidente della Nuova Zelanda: Jacinda Ardern. Al governo ha saputo inoltre gestire con grande lucidità la pandemia, imponendo misure drastiche prima degli altri Paesi e riducendo l’impatto del virus ad appena 25 decessi su una popolazione di 5 milioni di abitanti.
Penso che queste tre giovani donne rispondano perfettamente a quanto sostenevo prima: l’affermazione femminile passa necessariamente da una lotta collettiva, da un cambiamento che sia di ispirazione globale e possa accogliere istanze comuni.
L’uomo solo al comando non funziona più – anzi, non ha mai funzionato.